16 Febbraio 2024
Il maggior impegno dell’Europa per il clima è una necessità, anche per l’Italia
DI EDO RONCHI, PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU HUFFPOST
Dunque alla base delle proteste di una parte degli agricoltori, delle scelte verso le auto elettriche, delle misure per ridurre i consumi energetici degli edifici e della decarbonizzazione di alcune produzioni industriali, vi sarebbero scelte ideologiche, troppo ambientaliste ed estremiste, che caratterizzerebbero l’attuale Commissione e, più in generale, le istituzioni europee.
Queste scelte dovrebbero essere cancellate perché avrebbero costi insostenibili e perché metterebbero in crisi settori cruciali dell’economia italiana. Ma i fatti stanno veramente così? Le istituzioni scientifiche affermano chiaramente che, al punto in cui siamo giunti, per poter contenere il riscaldamento globale fra 1,5 e 2 °C, evitando precipitazioni catastrofiche, sono necessarie “rapide, profonde e, nella maggior parte dei casi, immediate riduzioni delle emissioni di gas serra“ (IPCC, CLIMATE CHANGE 2023 Synthesis Report Summary for Policymakers).
La necessità e la possibilità dell’accelerazione dell’impegno climatico è chiaramente affermata anche dall’Agenzia Internazionale per l’Energia: “Dobbiamo andare molto più lontano e più velocemente. Le azioni chiave necessarie per ridurre le emissioni fino al 2030 sono ampiamente conosciute e nella maggior parte dei casi molto convenienti “(World Energy Outlook 2023). Fino alle conclusioni approvate dalla recente COP 28 dove si afferma che occorre precedere “accelerando l’azione in questa decade critica, per conseguire emissioni nette zero entro il 2050”. Quindi, come minimo, occorrerebbe riconoscere che le misure dell’Unione Europea per il Green Deal e il pacchetto di misure “Fit for 55” non hanno nulla di ideologico ma sono inserite, coerentemente e responsabilmente, in un contesto internazionale che le richiede e rispondono alla necessità di far fronte ad una crisi climatica preoccupante e pericolosa.
L’Europa starebbe facendo troppo? Non risulta: l’Europa non è ancora allineata con la traiettoria del taglio delle sue emissioni del 55% al 2030, necessario per rispettare l’Accordo di Parigi per il clima. Con le misure in atto nel 2023 taglierebbe le sue emissioni solo del 43% al 2030 (Agenzia Europea per l’Ambiente). Non sorprende che chi è sempre stato, e continua a essere, un negazionista della crisi climatica, critichi l’impegno europeo per il clima e ne chieda una sospensione. Preoccupa, invece, che anche fra chi riconosce la gravità della crisi climatica, e quindi la necessità di un impegno, vi siano sostenitori di un “rallentamento delle misure”. Le prese di posizione che, in estrema sintesi, ho citato all’inizio, non sono né improvvisate né opinabili. Oggi l’impegno per contrastare la crisi climatica coincide con l’accelerazione delle misure di decarbonizzazione. Non c’è più tempo per aspettare. Se i Paesi più avanzati non accelerano la transizione, la finestra dei 2 gradi si chiuderà nel giro di pochi anni.
L’accelerazione delle misure per la neutralità climatica non è una passeggiata: è una sfida impegnativa. Quando valutiamo i costi della transizione non possiamo, stupidamente, ignorare quelli, enormi e insostenibili, della crisi climatica e della sua precipitazione: i danni delle alluvioni, le perdite dei raccolti per le siccità prolungate, i costi delle bollette per far fronte alle ondate di calore, i costi sanitari e quelli per i danni al turismo e via dicendo. E non è nemmeno vero che le misure per la transizione climatica siano economicamente insostenibili. Molte misure sono ormai economicamente convenienti: l’elettricità prodotta con le rinnovabili, per esempio, è ormai conveniente; risparmiare energia genera vantaggi anche economici; riciclare fa risparmiare materiali, energia ed emissioni ed è economicamente vantaggioso; usare meno l’auto non fa solo ridurre le emissioni, ma fa bene alla salute e fa risparmiare.
Alcune attività non solo devono, ma possono cambiare, se vogliamo affrontare la crisi climatica e impedirne una precipitazione catastrofica. Si dovrà, per esempio, ridurre il numero delle auto, incrementare la mobilità ciclopedonale, il trasporto pubblico e condiviso, passare dalle auto a benzina o diesel alle auto elettriche alimentate con elettricità rinnovabile. Alcune modalità di produzione industriale ad alte emissioni di gas serra dovranno cambiare: il modo di produrre acciaio primario e il cemento, per esempio. E anche gli allevamenti intensivi e alcune coltivazioni dovranno cambiare: da allevamenti che generano emissioni consistenti di metano e da coltivazioni con largo impiego di nitrati, dovremo passare ad allevamenti diversi, con un minor numero di capi – quindi anche ad una riduzione dei consumi di carne – e ad un diverso sistema di allevamento, di alimentazione del bestiame e di coltivazione. Questi, e altri, cambiamenti coinvolgono interessi consolidati, condizioni economiche e aspettative, anche legittime: non solo delle multinazionali del petrolio e del gas, ma anche di gruppi di lavoratori, di agricoltori e di imprenditori, anche piccoli e medi.
I settori sociali, potenzialmente toccati dalle misure climatiche, richiedono attenzione, ascolto, misure di supporto che li accompagnino nella transizione. È giusto che non paghino costi eccessivi per una transizione che riguarda tutti. È accaduto invece che questi settori sociali siano stati inondati da proclami, ma con scarse misure di sostegno alla riconversione, agli investimenti e alla riqualificazione. Sono stati invece politicamente accarezzati e incoraggiati a ostacolare le misure climatiche, per cercare di ricavarne consenso elettorale alle prossime elezioni, per cambiare gli indirizzi politici che governano l’Europa che sarebbero troppo ecologisti.
Nel 2023 in Italia sono aumentati per intensità e frequenza gli eventi meteorologici estremi: alluvioni e allagamenti, frane, trombe d’aria, forti mareggiate, siccità prolungate, ondate di calore con giornate con temperature estreme. Anche la preoccupazione dei cittadini italiani per la crisi climatica è ormai diffusa ed elevata. È ormai oggetto frequente delle nostre conversazioni ed è segnalata da numerose indagini. Una delle ultime (EY del 29 gennaio scorso) rileva che il 75% degli italiani è preoccupato per la crisi climatica, il 62% ha vissuto almeno un evento atmosferico estremo e il 63% si aspetta un peggioramento degli effetti del cambiamento climatico.
Attenzione quindi alle astuzie politiche ed elettorali: la crisi climatica c’è, pesa e preoccupa la gran parte dei cittadini italiani. Il diavolo è bravo a fare le pentole, ma non i coperchi!