30 Ottobre 2025
La finanza climatica è la chiave di volta per passare dalle parole ai fatti
Di CHIARA MONTANINI, PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU LINKIESTA
Uno dei banchi di prova su cui potremo misurare il successo della Cop30 di Belém sarà quello della finanza climatica, e in particolare dell’urgenza di identificare misure e strategie per accelerare gli investimenti nei Paesi più vulnerabili, per aiutarli ad adattarsi a un clima che è ormai già cambiato.
Quello della finanza climatica e della mobilitazione degli investimenti in favore dei Paesi in via di sviluppo è un tema storicamente rilevante per i lavori delle Cop, ma potrebbe diventarlo particolarmente in questa trentesima edizione perché proprio l’anno scorso, alla Cop29 di Baku, i governi hanno raggiunto un insperato accordo che mette sul tavolo un nuovo obiettivo: i Paesi industrializzati dovranno mobilitare verso i Paesi in via di sviluppo ogni anno trecento miliardi di dollari di investimenti, sia pubblici che privati, nella finanza climatica (obiettivo da raggiungere al più tardi entro il 2035).
Il primo, ovvero la misura. I trecento miliardi di dollari sono un obiettivo raggiungibile? Di quanto dovremmo accelerare gli attuali investimenti per allinearci a questo target? È un obiettivo sufficientemente allineato con la necessità di raggiungere un’economia a zero emissioni e resiliente entro la metà del secolo?
Secondo una recente analisi del World resources institute, il target dei trecento miliardi di dollari potrebbe essere raggiunto con sforzi ulteriori ma non titanici: nel 2022, secondo i dati dell’Ocse, sono stati mobilitati centoventidue miliardi di dollari di investimenti, per i tre quarti grazie al ruolo propulsore del settore pubblico attraverso le banche di sviluppo multilaterale e degli accordi bilaterali tra Stati, ed è verosimile pensare che proseguendo anche solo con i trend di crescita sperimentati negli ultimi anni, l’obiettivo dei trecento miliardi possa non essere così lontano.
Il quadro cambia però se consideriamo il più ampio target dei milletrecento miliardi di dollari che tutti gli attori, pubblici e privati, dovrebbero arrivare ad investire ogni anno nei Paesi in via di sviluppo. Questo ordine di grandezza si avvicinerebbe molto di più al reale bisogno di investimenti in finanza climatica delle economie emergenti, che l’High-Level Expert Group sulla finanza climatica, istituito presso l’Onu alla Cop26, avrebbe stimato in millequattrocento miliardi di dollari da parte dei Paesi industrializzati (a cui dovrebbero aggiungersi altri mille miliardi di dollari di risorse finanziarie domestiche, per un totale duemilaquattrocento miliardi di fabbisogno ogni anno, sempre entro il 2035). Quello dei milletrecento miliardi rappresenta dunque un obiettivo ben più complicato da raggiungere e richiede una mobilitazione senza precedenti di tutti gli attori pubblici e privati in questa direzione.
E questo si lega ad una seconda questione cruciale per la finanza climatica: il ruolo del settore privato. Molti analisti concordano che il potenziale degli attori privati sia ancora molto inespresso e che uno degli scopi principali di questa e delle prossime Cop debba essere quello di identificare regole, strumenti e strategie per canalizzare sempre maggiori investimenti privati nella finanza climatica e verso i Paesi in via di sviluppo.
Sempre secondo le stime del gruppo di esperti dell’Onu, la metà di tutto il flusso di investimenti di finanza climatica che dai Paesi industrializzati dovrebbe confluire verso i Paesi in via di sviluppo da qui al prossimo decennio dovrebbe arrivare dal settore privato, con una crescita di almeno quindici volte rispetto ad oggi (mentre per il settore pubblico è richiesta una crescita con volumi fra le due e le quattro volte superiore rispetto a oggi).
Anche in questo caso, comprendere quanti e quali volumi di investimenti confluiscano nell’una o nell’altra categoria non è un’operazione semplice, però le stime che abbiamo a disposizione parlano chiaro: secondo l’Adaptation gap report redatto dall’Unep (il Programma ambientale delle Nazioni unite), solo circa il trenta per cento degli investimenti di finanza climatica mobilitati dai Paesi industrializzati verso i Paesi in via di sviluppo ha riguardato l’adattamento (il riferimento è sempre alle stime del 2022 diffuse dall’Ocse). Questi volumi, sempre secondo l’Unep, dovrebbero moltiplicarsi fino a dieci-quindici volte per arrivare anche solo in minima parte a coprire le necessità di adattamento dei Paesi in via di sviluppo (stimate in circa trecentonovanta miliardi di dollari all’anno da qui al 2030).
Anche se il trend sugli investimenti nell’adattamento mostra una crescita stabile, si tratta comunque di una porzione ancora molto limitata degli investimenti, a fronte di un tema, quello dell’adattamento, che dovrebbe invece ricoprire un ruolo rilevante soprattutto quando parliamo dei Paesi in via di sviluppo, che molto spesso coincidono con la parte di mondo più vulnerabile agli impatti dei cambiamenti climatici. La Cop29 di Baku non è riuscita a identificare per l’adattamento un target specifico di finanziamenti e questo potrebbe invece essere uno dei risultati da portare a casa per la Cop di Belém, perché è l’esatta intersezione fra due dei temi di maggiore attualità per i lavori delle Cop negli ultimi anni.
I motivi di questo ritardo sono vari, a cominciare dal fatto che per arrestare la crisi climatica è stato necessario dare precedenza all’obiettivo di mitigazione (senza il quale nessun adattamento sarà mai possibile), ma ci sono anche importanti complessità metodologiche su cui gli esperti sono a lavoro, perché identificare un indicatore ben rappresentativo e misurabile sull’adattamento non è una sfida semplice.
Anche se la strada sembra ancora molto lunga e le prospettive di successo da Belém incerte, quello del Global adaptation goal resta uno dei dossier più caldi della Cop30 ormai alle porte.
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