5 Dicembre 2025
Geopolitica e key players dopo la COP30: riflessioni dallo Stakeholder Forum
A contribuire al dibattito sono stati Sonia Filippazzi (giornalista Rai), Antonio Piemontese (giornalista Wired), Giordana Pulcini (Università Roma Tre), Gabriele Crescente (giornalista L’Internazionale), Roberto Vigotti (RES4Africa) e Giuseppe Onufrio (esperto di clima ed energia già direttore di Greenpeace Italia).
Link alla presentazione di Antonio Piemontese
Il confronto si è aperto con un’analisi conseguente i risultati della COP30 che si è da poco conclusa a Belém. Tra gli elementi emersi:
- il ruolo molto attivo della società civile ai margini di Belém e anche fuori, ruolo che pur non avendo un impatto diretto sui negoziati dimostra quanto l’opinione pubblica possa essere forse spesso più coinvolta di quanto potrebbe forse sembrare dalla narrazione dei media;
- quanto e come il multilateralismo sia in crisi e il peso che la COP30 ha avuto nel tenerlo in vita: possiamo considerarlo un successo da Belém oppure solo una magra consolazione?
- gli impatti sul negoziato di due delegazioni che si sono presentate alla COP30 in modo molto diverso dal solito: quella dell’Unione europea, che ha registrato una partecipazione piuttosto sottotono, e quella degli USA, la cui assenza ha avuto un impatto forse meno rilevante, in senso negativo, di quanto si potesse temere alla vigilia della conferenza;
- la necessità delle COP di rispondere alle sfide sociali, ambientali e occupazionali di questo processo, a partire dalla necessità di una transizione giusta che che accompagni la riconversione tessuti industriali e territori che oggi sono a vocazione fossile;
- il ruolo dei petro-stati, che partecipano a questi negoziati per difendere interessi non solo economici ma anche profondamente identitari oltre che politici, che dipendono da posizioni di potere geopolitico consolidata da decenni; per un adeguato controbilanciamento, interessi altrettanto forti dovrebbero emergere dai Paesi che stanno puntando sulla transizione.
Il dibattito dello Stakeholder Forum a margine della COP30 si è poi concentrato su quattro key player, a cominciare dai due grandi emettitori globali, ovvero Cina e Stati Uniti, responsabili insieme di quasi il 40% delle emissioni mondiali, che rappresentano oggi approcci diametralmente opposti alla transizione energetica. Sul fronte degli USA, pesa la narrativa negazionista e il tentativo di rilancio dell’egemonia americana puntando sui fossili. Questo tentativo sembrerebbe rispondere a obiettivi economici e di consenso politico di breve periodo, ma sta mettendo a repentaglio non solo la lotta al cambiamento climatico a livello globale (trattandosi del secondo Paese per emissioni di gas serra dopo la Cina), ma anche, la leadership tecnologica e politica che gli USA hanno acquisito su molti ambiti della transizione. Un quesito è rimasto aperto durante il dibattito allo Stakeholder Forum oltre la COP30: si possono davvero invertire trend ormai avviati verso le tecnologie verdi, in un paese profondamente diviso su questi temi?
La Cina si caratterizza invece per le contraddizioni di un paese che oggi detiene tutte le leve strategiche della transizione (tecnologie, materie prime, investimenti), eppure non riesce ancora a ridurre le proprie emissioni. Il percorso di transizione cinese è cominciato quasi 20 anni fa come risposta alla necessità di mantenere la stabilità sociale interna e per risolvere questioni quali l’inquinamento, i rischi di una forte dipendenza energetica dalle importazioni di petrolio e la necessità di riqualificare il tessuto industriale puntando su settori ad alta specializzazione come appunto quello delle rinnovabili e dell’auto elettrica. Da queste necessità poi è nata l’opportunità di porsi in testa nella corsa all’innovazione green e di trarne enormi benefici di mercato. Altro aspetto rilevante nel dibattito ha riguardato il rapporto della Cina con l’Africa: quanto interesse avrebbe Pechino ad intestarsi un ruolo da protagonista nella transizione energetica e quanto, invece, potrebbe non voler uscire dalla categoria dei “paesi in via di sviluppo” perché questo le garantisce vantaggi economici? Nel frattempo, fra i vari aspetti controversi della rapidissima transizione energetica cinese, c’è indubbiamente la presenza massiccia che la Cina ha costruito negli anni nel continente africano per accedere alle materie prime critiche.
Pur non essendo tra i grandi emettitori mondiali, l‘Africa, si sta ritagliando un ruolo di laboratorio della transizione ed è stata al centro di un’analisi approfondita come terreno strategico di sperimentazione per capire come la transizione energetica possa accompagnare processi di industrializzazione e crescita senza passare dai combustibili fossili. L’unico modo per non ripetere gli errori dell’occidente sulla dipendenza dai combustibili fossili, è quello di promuovere un processo di massiccia elettrificazione in tutti i settori, e di farlo coinvolgendo non solo il quadro regolatorio ma anche e soprattutto il tessuto imprenditoriale locale. Sul fronte delle materie prime critiche, oggetto di una vera e propria nuova “corsa all’oro” e di cui molti territori africani sono purtroppo terra di predazione, oggetto di ampio dibattito allo Stakeholder Forum è stata anche la sfida su come contrastare la presenza enorme e capillare della Cina, per restituire ai governi, alle imprese e ai cittadini del continente africano tutti i benefici di queste risorse diventate ormai preziosissime per il futuro.
Un altro aspetto emerso dallo Stakeholder Forum a margine della COP30 ha riguardato inevitabilmente la qualità dell’informazione: oggi gran parte dei cittadini sostiene l’azione contro la crisi climatica, ma – come mostra l’Eurobarometro – resta una maggioranza silenziosa perché pensa, erroneamente, di essere una minoranza. Contrastare disinformazione e negazionismo è fondamentale per avanzare nel percorso verso la transizione.
In generale è ormai chiaro il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia. Il clima si salva solo se conviene? È una delle provocazioni lanciate per sottolineare che l’aspetto economico non può più essere ignorato nelle strategie climatiche.








