21 Settembre 2023

All’Italia conviene accelerare o rallentare la transizione ecologica?

DI EDO RONCHI, PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU HUFFPOST

Dal 1990 al 2022 l’Italia ha ridotto di circa il 20% le emissioni di gas serra, meno della media europea (-25%), meno della Francia (-22%) e della Germania (-36%). Nell’ultimo quinquennio il trend dell’Italia è peggiorato: tra il 2017 e il 2022 l’Italia ha ridotto le proprie emissioni solo del 3,5%, quasi la metà della media europea e molto meno di Francia (-8%) e della Germania (-11%). Di questo passo l’Italia non raggiungerebbe i nuovi target europei del pacchetto “Fit for 55”: il taglio del 43,7% al 2030 per i settori ESR (trasporti, edifici, agricoltura e piccoli impianti) e quello, comune a tutta l’Europa, del 62% per gli impianti soggetti ad ETS (grandi impianti, grandi emettitori). Nella scarsa determinazione, sin qui riscontrata con i numeri citati, a superare questo ritardo pesa la convinzione che l’Europa sbagli a perseguire obiettivi avanzati di riduzione dei gas serra e che all’Italia non convenga partecipare all’impegno europeo in prima fila.

In fondo – dicono i sostenitori della posizione frenante – le emissioni dell’Europa pesano solo per il 7% delle emissioni globali e quelle dell’Italia ancora meno. Trascurando così il fatto che, se aspettassimo i ritardatari, perderemmo ogni speranza di poter evitare la precipitazione della crisi climatica e che, se i paesi più avanzati e più ricchi non si impegnano per primi e maggiormente per il clima, gli altri, con minori possibilità, faranno ancora meno. Le condizioni economiche della transizione sono ormai cambiate: decenni di innovazione e di investimenti, spinti anche dall’aggravamento della crisi climatica, hanno reso economicamente vantaggiose e competitive molte misure di decarbonizzazione e hanno ridotto il peso dei settori economici legati ai fossili, anche se spesso ancora sopravvalutati dalle rappresentanze politiche che continuano a tutelarne gli interessi.

È ampiamente provato e facilmente verificabile, per esempio, che l’elettricità prodotta con le nuove fonti rinnovabili, solare ed eolico, per gli enormi progressi compiuti, oggi sono meno costose e molto più convenienti dal punto di vista economico di quella prodotta col gas. Al punto che nel 2022 le fonti rinnovabili hanno superato nel mondo i 1.600 miliardi di dollari di investimenti, superando di gran lunga quelli nelle fonti fossili, ferme intorno ai 1.000 (fonte IEA 2023). Tra il 2014 e il 2021 in Italia la crescita media della quota di rinnovabili sul consumo finale è stata di appena +0,3% ogni anno, circa la metà di quella conseguita dagli altri grandi Paesi europei e dalla media Ue27, tutti intorno allo 0,6%. Dal 2014 al 2021 in Italia sono stati installati impianti solo per 1 GW di media ogni anno. Nel 2022, anche per l’alto prezzo del gas, sono stati installati 3 GW di nuovi impianti da fonte rinnovabile, grazie al fotovoltaico (+2,4 GW) e all’eolico (+0,5 GW), comunque molti di meno di quelli installati in Francia (+5GW), in Polonia (+ 6 GW), in Spagna (9 GW) e in Germania (11 GW). Come mai? Per diversi motivi: fra i quali non trascurerei la diffusione di leggende della letteratura fossile, come quelle che favoleggiano dell’impossibilità di fare tante rinnovabili in Italia o che ancora raccontano di una discontinuità insormontabile delle rinnovabili.

Un altro caso di scuola son le motivazioni portate in Italia in opposizione all’iniziativa europea di bandire dal 2035 la vendita di nuove auto diesel e benzina e di consentire solo la vendita di nuove auto elettriche a zero emissioni. La ragione più citata da questa opposizione è quella di consentire l’immatricolazione di nuove auto a combustione interna alimentate a biocombustibili, dimenticando di aggiungere “esclusivamente” perché, altrimenti, sarebbe una scappatoia per mantenere motori che potrebbero continuare ad essere alimentati anche con gasolio o benzina. Anche se la ragione più di fondo, richiamata da questi frenatori, è stata quella contro l’auto elettrica, accusata di mettere in crisi il settore della produzione automobilistica nazionale.  Nonostante la flessione delle vendite, in Italia nel 2022 abbiamo superato 40 milioni di auto circolanti, con un tasso di 683 auto ogni 1000 abitanti: il più alto in Europa. Troppe auto comportano congestione del traffico, spazi urbani occupati, inquinamento dell’aria, emissioni di gas serra, costi elevati a carico dei cittadini. Nonostante questo alto numero di auto circolanti, l’industria italiana dell’auto con motore a combustione interna è già stata oggetto di un radicale ridimensionamento: oggi siamo all’ottavo posto in Europa, dietro la Romania, con sole 473 mila auto prodotte nel 2022 (3 milioni in meno della Germania, 1,3 milioni in meno della Spagna, meno della metà di quelle prodotte nella Repubblica Ceca e in Francia).

In questo contesto l’elettrificazione della mobilità potrebbe diventare un’occasione sia per ridurre la congestione e l’inquinamento delle nostre città, sia per rilanciare un settore industriale in declino, avviando una rapida e accelerata conversione. Invece che sta succedendo? L’Italia è l’unico Paese europeo a registrare una diminuzione nelle immatricolazioni di auto elettriche (full e plug-in) tra il 2021 e il 2022, mentre gli altri le hanno aumentate: la Germania (+22%), il Regno Unito (+21%), la Spagna (+17%), la Francia (+9%) e la media Ue (+14%). Anche la penetrazione dell’auto elettrica in Italia è molto bassa, meno del 10% delle nuove immatricolazioni, mentre in Germania è quasi un terzo del mercato, in Francia più del 20% e nella Ue la media è del 25%. Anche i richiami dei frenatori al ruolo della componentistica dell’auto nell’industria nazionale non hanno basi solide: visto come si stanno muovendo velocemente verso le auto elettriche le principali case automobilistiche, comprese quelle tedesche nostre principali clienti, a chi venderemmo la parte della componentistica italiana non compatibile con le auto elettriche?

Il settore degli edifici (residenziali, del commercio e dei servizi) in Italia è il principale consumatore di energia, circa il 45% del totale ed anche quello che più ha aumento i consumi energetici: del 33,5 %, da 34 Mtep nel 1990 a 45,4 Mtep nel 2022. Non solo per la decarbonizzazione, ma per ridurre le bollette energetiche, è per noi fondamentale tagliare i consumi energetici negli edifici. La Commissione Europea ha proposto una nuova Direttiva per accelerare il miglioramento l’efficienza energetica degli edifici (EPBD 2) approvato con proposte di modifiche a marzo 2023 dal Parlamento Europeo, che introduce una serie di obblighi di efficienza energetica e di utilizzo di fonti rinnovabili per i nuovi edifici ed anche di miglioramento dell’efficienza energetica di quelli esistenti, a partire dal 15% di edifici più energivori. Il governo italiano si è dichiarato contrario alla EPBD 2. Una ragionevole maggiore flessibilità in alcune scadenze temporali, ben regolata, per una quota di edifici, in particolare per quelli abitati da famiglie a basso reddito, potrebbe essere utile per raggiungere gli obiettivi e diluire i costi degli interventi, ma la portata positiva di questa direttiva non va sottovalutata. Né andrebbe utilizzato l’alto costo per le casse dello Stato del prolungamento eccessivo, ben oltre l’anno dell’emergenza economica conseguente alla pandemia, del superbonus 110%, come argomento per bloccare ogni nuova iniziativa più incisiva in questo settore. Si può e si deve introdurre un diverso sistema di incentivazione, più efficace e a minore costo, tenendo conto che gli interventi per i miglioramenti energetici degli edifici, hanno un carattere economicamente espansivo: promuovono investimenti non solo diretti ma anche indiretti, con ricadute significative sulla crescita economica, concorrono, oltre al taglio delle emissioni, anche a ridurre i consumi di energia e le importazioni di gas, alimentano l’occupazione e generano anche un significativo aumento delle entrate fiscali.

L’accelerazione della circolarità dell’economia, un altro dei pilastri fondamentali della transizione ecologica, trova in genere più consensi, ma, quando si passa dalle affermazioni generali, alle misure concrete, gli impegni rallentano. Qualche esempio? Lodiamo tutti il riciclo dei rifiuti, ma siamo lenti nell’introdurre innovazioni per migliorare il riciclo delle plastiche miste o per aumentare i tassi di raccolta e di riciclo dei RAEE. Registriamo ostilità nell’aumento del riutilizzo degli imballaggi riutilizzabili e che già, in parte, riutilizziamo: bottiglie di vetro per l’acqua minerale, per la birra e per il vino, cisternette e casse in plastica, pallet in legno e plastica e fusti in acciaio. Sulla maggiore durata, la riparabilità, il mercato dei prodotti usati, l’aumento dello sharing, abbiamo buone dichiarazioni, anche programmatiche, ma assenza di misure nuove e concrete per accelerare la circolarità. Eppure, uno scenario a maggiore circolarità genererebbe notevoli vantaggi anche economici: una riduzione del consumo complessivo e dei costi dei materiali, per la gran parte importati, una riduzione quantità di rifiuti prodotti e dei costi della loro gestione, un aumento sia del riciclo che delle attività connesse con un maggiore riutilizzo.

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