18 Gennaio 2024

Che cos’è l’Accordo di Parigi?

Può sembrare impossibile riuscire a mettere d’accordo decine di Paesi nel prendere degli impegni per contrastare il cambiamento climatico. D’altronde, ogni Paese è diverso dall’altro per quanto riguarda non solo le sue caratteristiche economiche e sociali, ma anche la sua responsabilità storica nell’aver contribuito a creare questo problema. Così come ogni Paese è diverso dall’altro per quanto riguarda l’esposizione attuale e futura alla crisi climatica: in particolare, i Paesi più poveri e che hanno contribuito meno a creare questo problema saranno proprio quelli che soffriranno maggiormente delle conseguenze del cambiamento climatico. Per questo nei decenni di trattative per il clima, iniziate nel 1992 con l’entrata in forze della Convenzione quadro sul clima dell’ONU, il riconoscimento di un principio di “responsabilità comuni, ma differenziate” è stato spesso uno dei principali freni alla diplomazia climatica.

Ma nel 2015, in occasione della COP21, abbiamo assistito ad una svolta storica: quasi 200 Paesi, praticamente tutte le Nazioni del pianeta Terra, hanno siglato l’Accordo di Parigi e si sono impegnate verso un obiettivo di contenimento dell’aumento delle temperature entro 2 °C, facendo “tutto il possibile per contenere l’aumento delle temperature entro +1,5°C, riconoscendo che, restare entro quest’aumento limiterebbe significativamente gli impatti del cambiamento climatico”.

È la prima volta che nella trattativa sul clima si introduce il limite di +1,5 °C (rispetto alla media del periodo preindustriale) e per questo all’IPCC, l’organo scientifico a supporto della Convenzione ONU sul clima, è stato richiesto di elaborare dei nuovi scenari ad hoc e tradurre questo nuovo obiettivo in una traiettoria di riduzione delle emissioni di gas serra. Così nel 2018 viene presentato lo Special Report “Global Warming of 1.5°C” che per la prima volta mette nero su bianco una roadmap sulle emissioni davvero impegnativa, con un taglio di oltre il 40% delle emissioni globali di gas serra già entro il 2030 e il raggiungimento delle “emissioni nette zero” (cioè della neutralità climatica) entro il 2050.

Un’altra grande novità dell’Accordo di Parigi riguarda il fatto che non viene fissato alcun limite emissivo ai Paesi dall’alto. Quello che i Paesi hanno sottoscritto è l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media globale entro +1,5°C o al massimo +2°C e ciascuno può decidere autonomamente come perseguirlo attraverso un piano di riduzione delle proprie emissioni; questi piani sono chiamati “Nationally Determined Contribution” (NDC) e devono illustrare come, in quanto tempo e con quali azioni concrete il Paese intende ridurre le proprie emissioni di gas ad effetto serra e migliorare l’adattamento agli impatti del cambiamento climatico. Si tratta di impegni sottoscritti inizialmente a titolo volontario ma che, una volta approvati, diventano vincolanti ai sensi del diritto internazionale.

Ma cosa succede se gli impegni di un Paese risultano insufficienti? Esiste una procedura di verifica formale, chiamata “Global Stocktake”, che monitora l’effettiva coerenza tra gli NDC presentati dai Governi e la traiettoria che le emissioni globali di gas serra dovrebbero seguire per conseguire l’obiettivo dell’Accordo di Parigi. Quando si verifica un disallineamento, secondo quanto sottoscritto a Parigi, i Governi devono obbligatoriamente rivedere al rialzo le proprie ambizioni e trasmettere nuovi NDC con obiettivi e target più sfidanti. Ed è proprio quanto è avvenuto nell’ultima COP28 di Dubai che ha inaugurato il primo Global Stocktake della storia il cui esito, purtroppo, non è stato positivo: se anche tutti gli NDC presentati ad oggi dai Paesi venissero realizzati, infatti, ridurremo le emissioni nel 2030 solo del 9% (anziché del 43% che sarebbe necessario) e l’aumento della temperatura globale invece di fermarsi a 1,5 °C arriverebbe vicino ai +3 °C.

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