26 Settembre 2024

Climate Week di New York: perché il 2025 sarà un anno determinante

DI ANDREA BARBABELLA, PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU HUFF POST

Questa (22-29 settembre) è la settimana della Climate Week di New York. Con oltre 600 eventi e la partecipazione di migliaia di rappresentanti delle istituzioni e della società civile, la Climate Week si candida a essere l’appuntamento sul clima più rilevante dopo le Conferenze annuali della Convenzione quadro sul cambiamento climatico (le Conference of parties, COP). Sempre più, infatti, a NY si prepara in qualche modo il terreno della COP che si terrà a distanza di poco più di un mese. Ciò che emergerà dall’evento di NY di questi giorni potrebbe darci qualche indizio, quindi, su quanto potrebbe accadere durante le trattative ufficiali che si terranno dalla parte opposta del mondo, a Baku in Azerbaijan, a metà novembre. Cosa possiamo davvero aspettarci da questo evento? Quali sono i temi caldi al centro del dibattito, sui cui esiti potremo valutare la riuscita o meno del summit di NY?

Un primo tema caldissimo, su cui si concentrano le attenzioni di molti osservatori, è certamente quello dei livelli di ambizione dei Governi. Nel primo Global Stocktake presentato lo scorso anno alla COP28 di Dubai è emerso che, se anche tutti gli impegni al 2030 presentati dai Governi (i Nationally determined contributions, NDCs) venissero effettivamente rispettati, l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C rispetto al periodo pre-industriale sarebbe mancato, portando ad un aumento della temperatura media globale compreso tra 2,1 e 2,8°C. Proprio per questo ai Governi è stato richiesto entro il 2025 di rivedere al rialzo quelli che in gergo vengono definiti i propri livelli di ambizione, oltre a presentare nuovi obiettivi per il 2035, anno in cui le emissioni globali, che ancora oggi continuano a crescere, dovrebbero essere ben del 60% più basse rispetto a quelle del 2019. Tenendo conto che il 2025 è anche l’anno in cui dovremmo raggiungere il picco delle emissioni per avere una speranza di mantenere ancora aperta la finestra del +1,5°C, a NY in molti si aspettano che alcuni Paesi prendano l’iniziativa anticipando nuovi e più ambiziosi obiettivi. Questo sarebbe un segnale ancora più importante di quanto potrebbe apparire se lo contestualizziamo all’interno del dibattito attuale, europeo e non solo, con le politiche di contrasto alla crisi climatica che sono sempre più spesso al centro dello scontro politico.

Un secondo tema decisamente caldo è quello della transizione energetica. Il settore energetico è il principale responsabile della crisi climatica, la trasformazione verso un sistema decarbonizzato è già in corso ma la velocità è incompatibile con i tagli alle emissioni che sarebbero necessari per stabilizzare il sistema climatico. Alla COP di Dubai dello scorso anno sono stati fissati due importanti traguardi al 2030: raddoppiare la velocità dei miglioramenti sull’efficienza energetica e triplicare la capacità installata di rinnovabili elettriche nel mondo. Al momento, nonostante i record infranti anno dopo anno da eolico e solare, secondo l’analisi di IRENA non siamo ancora sulla strada giusta. Liberare i potenziali di efficienza energetica e fonti rinnovabili è anche la strada maestra per tradurre in azione la storica frase, sempre concordata a Dubai: “transitioning away from fossil fuels in energy systems”. Può sembrare scontato dirlo, ma l’unico modo che abbiamo per evitare il disastro climatico è quello di ridurre drasticamente il consumo di combustibili fossili e dobbiamo farlo subito. Purtroppo la produzione e il consumo di petrolio, gas e carbone continuano a crescere, rimandando anno dopo anno il raggiungimento dell’agognato picco delle emissioni. Secondo l’ultima edizione dell’Emission gap report dell’UNEP, le infrastrutture già oggi esistenti nel mondo per estrarre e lavorare combustibili fossili nel loro normale ciclo di vita genereranno 4 volte le emissioni che potremmo permetterci da qui alla fine del secolo per restare al di sotto della soglia +1,5°C. E, secondo un’altra analisi della stessa Agenzia delle Nazioni Unite, nei programmi e le proiezioni dei Governi di tutto il mondo da qui al 2030 non solo non c’è traccia di tagli alla produzione di fossili ma, al contrario, si pianificano aumenti consistenti della capacità produttiva annua di carbone, petrolio e gas. Probabilmente quella del mancato disimpegno dai combustibili fossili continua a essere la più grande ipocrisia della diplomazia climatica internazionale: NY sarà in grado di mandare un messaggio chiaro a Baku?

Strettamente connesso al precedente c’è poi il tema, anche questo sempre più rovente, di chi e in che modo dovrebbe farsi carico di finanziare la transizione energetica e le politiche di adattamento al riscaldamento globale che già oggi produce danni incalcolabili, soprattutto per le economie più vulnerabili. Questo tema può essere declinato in almeno due modi diversi. Da un lato c’è il punto di vista delle economie industrializzate, che già faticano a capire come attivare quegli investimenti che sarebbero necessari per realizzare in primis in casa propria la transizione energetica e affrontare gli impatti della crisi climatica. È emblematico, in tal senso, il dibattito recentemente alimentato dal rapporto sulla competitività dell’Unione di Draghi che ha stimato in 750-800 miliardi all’anno gli investimenti aggiuntivi necessari, pari a circa il 5% del Pil comunitario, in gran parte da destinare proprio alla transizione energetica, e ha indicato, tra gli altri, lo strumento – poco amato da alcuni – del debito comune come possibile leva per attivarli. Grazie alle stime dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, a livello globale sappiamo che gli investimenti nelle energie pulite da qui al 2030 dovrebbero più che raddoppiare, arrivando a quasi 5 mila miliardi di $ all’anno. Ma il dato forse ancora più rilevante è che quasi i due terzi degli investimenti aggiuntivi dovrebbero essere destinati alle economie emergenti. E questo apre il secondo fronte del più ampio tema dei finanziamenti per il clima: chi dovrebbe finanziare la transizione nei Paesi più poveri che non hanno al loro interno risorse per farlo? E chi dovrebbe alimentare un fondo che, secondo alcune stime sempre dell’UNEP, dovrebbe avere quasi 400 miliardi di $ all’anno per finanziare le politiche di adattamento nei Paesi in via di sviluppo per difendersi dagli impatti negativi della crisi climatica? Pensando a chi ha le maggiori responsabilità del riscaldamento globale e chi ne pagherà il conto più alto, la stessa domanda potrebbe sembrare quasi provocatoria ma, di fatto, ad oggi gli aiuti versati dalle economie avanzate a quelle in via di sviluppo per sostenere la transizione energetica e consentire di difendersi dagli impatti del clima che cambia sono ampiamente al di sotto delle necessità.

Il quarto e ultimo tema caldo non riguarda i Governi, ma il mondo delle imprese. In questi ultimi anni è cresciuto il loro coinvolgimento all’interno degli stessi eventi ufficiali delle Nazioni Unite sul clima e si è diffusa una narrativa incentrata sull’idea che potrebbero essere proprio loro, gli imprenditori, a mettersi in prima linea e guidare la lotta alla crisi climatica, specie in un contesto in cui i Governi e la diplomazia internazionale si sono mostrati sempre meno all’altezza. Migliaia di imprese hanno annunciato obiettivi di decarbonizzazione sempre più sfidanti, finendo invischiate, spesso loro malgrado, in una specie di competizione per chi raggiunge prima l’agognato net zero. Ma questa ansia di primeggiare non sempre ha portato a ricercare e realizzare soluzioni realmente più efficaci per tagliare le emissioni dei processi produttivi e delle filiere di approvvigionamento. Si sono andati moltiplicando casi di vero o presunto greenwashing, tanto da spingere la stessa Unione europea a intervenire sul tema della comunicazione aziendale (e non solo) attraverso la recente Direttiva sui green claims. In questi mesi si stanno discutendo importanti cambiamenti all’interno dei principali standard di riferimento per le strategie di decarbonizzazione delle imprese, dal GHG Protocol alle norme Iso fino all’iniziativa Science Based Target. Al centro di questi cambiamenti c’è, in particolare, il tema dell’offsetting – nelle sue varie declinazioni e formule – e la possibilità per le imprese di compensare parte delle proprie emissioni attraverso progetti che, si presume, possano garantire di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera. Non sarà semplice trovare una soluzione, specie dopo che molti importanti firme hanno puntato anche pubblicamente su iniziative di compensazione, ma ne vale della credibilità stessa dell’impegno delle imprese per il clima e sarebbe molto importante che da NY anche su questo si levasse un messaggio forte e chiaro in direzione di Baku.

Quattro temi bollenti per la Climate Week di New York, che in fondo rimandano a una richiesta sola: è il momento di passare dalle parole ai fatti, pena il rischio del totale screditamento delle trattative internazionali sul clima e la chiusura della finestra utile per limitare il riscaldamento globale a +1,5 °C. E’ vero, ripetiamo questa frase oramai da diverso tempo alla vigilia di questi summit. Ma forse oggi, dopo che la crisi climatica ha mostrato nel modo più chiaro possibile cosa vuol dire vivere in un mondo che per oltre di 12 mesi consecutivi ha superato la soglia di +1,5°C, di fronte alla finestra che sta per chiudersi potremmo forse sorprenderci di fronte a un imprevisto scatto di reni.

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