3 Novembre 2021

Giorno 2, COP26 DAY BY DAY – Lettere da Glasgow

Più foreste, meno metano: Cop26 entra nel vivo

di Antonio Cianciullo

L’andamento delle Cop somiglia al clima: è caotico e difficilmente prevedibile. Rispetto al copione tradizionale quest’anno c’è stato un colpo di scena. I big hanno fatto irruzione all’inizio del primo atto, invece di farsi precedere dal lungo lavoro degli sherpa e arrivare subito prima che si chiuda il sipario, sperando di cogliere applausi. Lo hanno fatto perché temono che questa volta arrivino i fischi? Che non ci siano margini per un accordo? O l’intento è stato diverso e positivo: dare una scossa emotiva all’inizio sperando che sortisca qualche effetto?

In ogni caso è stata una partenza sprint. Con tre dei big polluters che hanno avuto un ruolo di rilievo. Due si sono notati di più per l’assenza (Cina e Russia), uno per la presenza. Il premier indiano Narendra Modi ha calato con maestria il suo asso quando le carte erano già sul tavolo e tutti attendevano l’ultima mossa. I protagonisti della scena economica globale avevano indicato la data di phase out dei fossili e su quella si era consumato il conflitto al G20, sanato all’ultimo momento dall’abilità lessicale del team di Draghi che ha trovato l’espressione capace di creare il trompe l’oeil, la simulazione di un accordo inesistente: “entro o intorno alla metà del secolo”.

Che fino a ieri voleva dire 2050 (tesi maggioritaria sostenuta dalle Nazioni Unite e da un folto gruppo di democrazie) o 2060 (tesi appoggiata da Cina e Russia). Da oggi può voler dire 2070? Secondo Modi sì. L’India arriverà alla decarbonizzazione tra mezzo secolo. Lo ha detto seguendo un ragionamento che riprende una traccia antica (le responsabilità comuni ma differenziate se si vuole usare il gergo Onu) ma con aperture moderne (la volontà di tagliare un miliardo di tonnellate di gas serra entro il 2030) e l’accenno a una possibile evoluzione della data (a fronte di più cospicui finanziamenti).

“I Grandi della Terra non sanno parlare con una voce sola; è stato evidente al G20 di Roma e lo è ancora alla Cop26”, ha chiosato oggi Oscar Soria, direttore delle campagne di Avaaz, l’organizzazione non governativa nata nel 2007 a New York. Esaurito l’effetto ipnotico dei titoli regalati ai media dalla creatività linguistica di Boris Johnson e dalla teatralità di Modi, già al secondo giorno l’andamento caotico è affiorato, con l’attenzione che ha cominciato a disperdersi tra foreste e politiche degli aiuti, derive tecnologiche e metodologie di calcolo.

Ma in realtà proprio qui sta il sale delle Conferences of parties (le parti che hanno sottoscritto la Convenzione quadro contro i cambiamenti climatici). Un meccanismo elefantiaco (popolato da decine di migliaia di delegati). Spesso criticato per i cuoi costi (anche ambientali). Lento per la necessità di ottenere un consenso unanime (secondo la procedura delle Nazioni Unite). E tuttavia spesso capace di testimoniare una vitalità che i vertici dei Grandi non hanno. La presenza dentro le sale e fuori dalle sale di ambientalisti, rappresentanti dei popoli indigeni, imprese interessate alla transizione, enti locali crea un mix che in fondo ha un grande pregio: somiglia alla realtà.

Dunque riportare il dettaglio di giornate in cui centinaia di dichiarazioni si intrecciano sarebbe controproducente: rischierebbe di creare confusione invece di comprensione. Ma qualche flash serve a dare l’idea. Eccoli.

Bezos promette 2 miliardi di dollari per l’Africa. Il premier giapponese promette 10 miliardi di dollari in 5 anni per aiutare la decarbonizzazione in Asia. Più di 100 Paesi si sono impegnati a ridurre le emissioni di metano almeno del 30% entro il 2030 (rappresentano il 70% del Pil mondiale ha detto Biden). Più di 100 Paesi si sono impegnati a “proteggere e ripristinare le foreste della Terra”.

Se si deve scegliere un protagonista della giornata, la palma va proprio alle foreste, descritte da Boris Johnson come “grandi ecosistemi pieni di vita, vere cattedrali della natura, i polmoni del nostro pianeta”. Gli Stati firmatari s’impegnano a porre fine alla deforestazione e a invertire la tendenza del fenomeno entro il 2030. Previsti stanziamenti pubblici e privati per oltre 19 miliardi di dollari.

Un bell’annuncio. Peccato che tra i firmatari ci sia anche il presidente del Brasile Jaire Bolsonaro. Dopo essersi allenato negando gli effetti del covid, Bolsonaro ha proseguito ignorando i picchi di incendi che l’Amazzonia ha subito da quando è stato eletto. E pochi giorni fa, a SkyTG24, ha detto: “L’Amazzonia non prende fuoco, è una foresta umida, prende fuoco soltanto nelle sue zone periferiche”.

Anche 30 multinazionali finanziarie e assicurative, tra le quali Aviva, Schroders e Axa, si sono comunque impegnate a sospendere ogni investimento che aggravi la deforestazione. E se la richiesta da parte dei consumatori, cioè di tutti noi, di utilizzare solo legno certificato si allargherà, sarà difficile continuare a giocare con promesse smentite dai fatti.

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