16 Novembre 2021

Tra limiti e carenze della COP26, qualche spiraglio aperto

di Edo Ronchi

Ciò che ha richiamato maggiore attenzione dei media nei bilanci della COP26 di Glasgow è stata la sostituzione del termine “eliminare” con il termine “ridurre l’uso” del carbone per produrre energia elettrica – sempre senza indicare una data, basta che siano ”accelerati gli sforzi” – e lasciando l’indicazione, sempre senza data, di non incentivare i “fossili inefficienti”, lasciando incentivabile il loro utilizzo ”efficiente”.

Sostituzione sostenuta dall’India, spalleggiata dalla Cina. Chi ha posto l’accento sui risultati positivi di questa COP – a partire dal Premier del Paese ospitante, Boris Johnson, nella conferenza stampa di bilancio – ha sottolineato l’obiettivo di 1,5°C . Nel testo finale del Patto di Glasgow rimane il riferimento dell’Accordo di Parigi al target “ben al di sotto dei 2°C e, come dovrebbe essere noto, già l’Accordo di Parigi indicava la necessità di fare ogni sforzo per non superare 1,5°C. Si rischiava di abbandonare il target di 1,5°C? Aver comunque ribadito quell’obiettivo, anche con maggiore convinzione, sarebbe già un risultato significativo?

La COP26 aveva diversi obiettivi: il primo, quello fondamentale, era quello di allineare gli NDC, gli impegni nazionali, quindi la loro somma, con la traiettoria dell’Accordo di Parigi, in particolare con l’impegno di “mantenere alla portata”- per usare le parole del G20 – l’obiettivo del non superamento della temperatura media globale, rispetto all’era preindustriale, di 1,5 °C.

Per la prima volta nel testo del Patto si afferma che, per mantenere tale traiettoria, occorre tagliare le emissioni mondiali  del 45%  rispetto al 2010, entro il 2030. Con gli impegni nazionali portati a Glasgow dai vari Paesi, tuttavia, nel 2030 le emissioni globali, rispetto al 2010, aumenteranno del 13,7%. La dimensione del mancato obiettivo della COP26 sta nell’enorme distanza fra questi due numeri. Questo resta il nodo centrale: senza una più consistente riduzione delle emissioni di gas entro il 2030, l’aumento di 1,5°C sarà superato, con conseguenze che l’ultimo Rapporto dell’IPCC descrive come  molto gravi.

La necessità di accelerare – ribadita formalmente anche nel Patto di Glasgow – l’impegno di riduzione delle emissioni di gas serra nel prossimo decennio non è un’opinione, ma un obbligo morale (per chi è consapevole della portata di questa crisi climatica) e una necessità per tutti. Anche per quelli che oggi frenano – Cina in testa – perché questa grande crisi climatica non risparmia nessuno: se non si accelera la riduzione dei gas serra, la  precipitazione della crisi climatica porterà guai molto seri per tutti.

L’Accordo di Parigi si basa – non va dimenticato – sugli impegni dichiarati dei diversi Paesi. Le COP sono conferenze internazionali dove Paesi sovrani si confrontano e, quando è possibile, concordano su decisioni comuni. Non c’è né un governo mondiale in grado di prendere decisioni per tutti, né sono in vigore meccanismi di governance in grado di rendere cogenti le decisioni di queste conferenze.

In queste conferenze trattano governi differenti, che perseguono priorità politiche spesso divergenti, che rappresentano Paesi con condizioni economiche e impatti climatici molto diversi e che sono più o meno legati agli enormi interessi che ruotano intorno all’economia dei combustibili fossili.

Per tutte queste ragioni queste conferenze, per non fallire, richiedono ampio consenso e faticose mediazioni che possono individuare i problemi, suggerire qualche parziale misura, ma non sono il veicolo più idoneo per portare a cambiamenti rapidi e radicali. Questo non giustifica l’atteggiamento di chi, autodefinendosi “realista”, dipinge sempre ogni accordo internazionale sul clima – compreso il Patto di Glasgow – come positivo, come grande passo avanti. COP26 significa che ne abbiamo fatte 26 di queste conferenze: sempre con “grandi risultati positivi”, secondo i “realisti”. Peccato che nel frattempo, le emissioni di gas serra, anziché ascoltare gli autorevoli commenti dei realisti,  sono  aumentate  enormemente e la crisi climatica è sempre più grave.

Sarebbe più utile alla buona causa del clima riconoscere i limiti e le carenze di questi accordi internazionali per continuare ad affrontarli e cogliere gli spiragli che aprono, anche se stretti.

Opportunamente il documento conclusivo della COP26, riconoscendo i grossi limiti di questa conferenza, rimanda  alla prossima, a breve, nel 2022 alla COP27, l’adeguamento degli impegni nazionali per renderli conformi alla traiettoria di 1,5 °C. C’è quindi un altro anno: vedremo se l’impegno ribadito dalla Cina nella dichiarazione congiunta con gli USA, si tradurrà in un cambiamenti concreti, rinunciando ad aumentare le sue enormi emissioni di gas serra prima del 2030.

Per fermare le centrali a carbone non è necessario aspettare l’India, che ha emissioni pro-capite e globali molto basse e un quarto di quelle cinesi: si possono accelerare le dismissioni di queste centrali in molti Paesi. Lo stesso si può fare per eliminare gli incentivi all’uso di combustibili fossili: non dobbiamo aspettare l’accordo dei Paesi produttori di carbone, di gas e di petrolio.

Porre fine alla deforestazione entro il 2030? Ovviamente si può, e si dovrebbe, farlo da subito ovunque sia possibile. È risultato più chiaro che per coinvolgere i Paesi in via di sviluppo, noi dei Paesi sviluppati dobbiamo aumentare il nostro impegno sia per i 100 miliardi di dollari – in realtà ne servirebbero di più – all’anno promessi per sostenere i cambiamenti verso la neutralità climatica, sia contribuendo a risarcire le perdite subite  per la crisi climatica da Paesi poveri che non hanno generato emissioni di gas serra, ma che hanno subito le conseguenze di quelle generate da noi.

Durante questa COP abbiamo potuto registrare anche un grande fermento di iniziative di molti Paesi, di città e di imprese. C’è ormai un consistente movimento internazionale in atto che partecipa a Race to Zero, la corsa dei soggetti non governativi, lanciata dall’ONU, verso la neutralità climatica. Anche in Italia c’è stata una grande attenzione dell’opinione pubblica e dei media che potrebbe aver alimentato una spinta per fare di più e meglio la nostra parte, anche in Italia.

Chissà che non serva anche a fare qualche nuovo passo avanti concreto per il clima. Approvando anche in Italia, per esempio, una legge per la protezione del clima che aggiorni e renda legalmente vincolanti, i nuovi target al 2030 e verso la neutralità climatica, che introduca nuove misure efficaci per raggiungerli nei diversi settori e coinvolga più attivamente anche le Regioni e i Comuni.

Articolo originale pubblicato su Huffington Post Blog

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