25 Novembre 2025

Belém insegna che le Cop non bastano

Di ANDREA BARBABELLA, PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU HUFFPOST

Diciamo la verità: le speranze di una buona riuscita della trentesima Conferenza delle Parti di Belem non erano altissime all’avvio dei lavori, complice un contesto storico oggettivamente poco favorevole. Eppure, la COP brasiliana ha deluso persino le pur modeste aspettative della vigilia, portando a casa pochi risultati che non saranno in grado di incidere su una situazione che, come ci ha ricordato molto bene l’uragano Melissa solo pochi giorni prima dell’inizio della conferenza, è diventata oramai semplicemente insostenibile.

La scienza (ma questo lo sapevamo già) ha ufficialmente dichiarato perduta, almeno temporaneamente, la scommessa di limitare entro la fine del secolo in corso l’aumento di temperatura al di sotto di quella soglia di 1,5°C che era il vero target dello storico Accordo di Parigi. Da oggi in poi l’obiettivo diventa un altro: fare di tutto affinché questo superamento temporaneo – overshoot in gergo – duri il meno possibile, augurandoci che il conto che in questo lasso di tempo dovremo pagare al riscaldamento globale non sia troppo salato.

Ma invertire il trend di crescita della temperatura vuol dire avere davanti qualcosa di ancora più sfidante rispetto a quell’obiettivo di neutralità climatica al 2050 che, a dirla tutta, già non sembrava esattamente una passeggiata. Limitare la finestra temporale nella quale vivremo più al calduccio di quanto avremmo voluto, infatti, vuol dire arrivare il prima possibile a un modello economico e produttivo che globalmente sia in grado di sottrarre invece che aggiungere gas serra dall’atmosfera. E, guarda caso, uno dei temi caldi di questa COP era proprio quello degli assorbimenti di carbonio e, in particolare, della transizione verso sistemi forestali in grado di diventare a livello globale degli assorbitori netti di CO2. Peccato che nel Paese della foresta amazzonica non si sia riusciti neppure ad arrivare ad un accordo chiaro e vincolante sull’arresto della deforestazione.

Ma il punto vero rimane quello delle emissioni, che ancora a dieci anni da Parigi non accennano a diminuire, con il nuovo record assoluto di 57,7 miliardi di tonnellate di gas serra immesse in atmosfera nel solo 2024. E, ovviamente, parlare di emissioni vuol dire parlare di combustibili fossili che, da soli, sono responsabili di quasi il 70% dei gas serra totali. E quando 80 governi hanno avanzato una proposta di roadmap che avrebbe dovuto dare un senso a quel transitioning away from fossil fuels faticosamente partorito alla conferenza di Dubai del 2023, per un attimo qualcuno avrà anche pensato “hai visto mai che dal Brasile possa infine arrivare una bella sorpresa!”. Ma, manco a dirlo, di una roadmap di uscita dai combustibili fossili nel documento finale neanche l’ombra, a ulteriore testimonianza della incontestabile capacità mostrata dalle lobby del settore, lobby che probabilmente saranno state anche fonte di ispirazione per Ursula Von der Leyen e la sua incredibile ultima dichiarazione in occasione del G20 africano: “Noi (europei) non stiamo combattendo i combustibili fossili, stiamo combattendo le emissioni prodotte dai combustibili fossili”. Si potrebbe quasi essere portati ad ironizzare se quella che stiamo vivendo più che a una commedia non assomigliasse a una tutt’altro che comica tragedia.

Tragedia sottolineata dal fatto che i nuovi impegni che i Governi avrebbero dovuto presentare per dare nuovo slancio alle politiche climatiche globali, oltre a essere meno della metà di quanti avrebbero dovuto (64 contro i quasi 200 firmatari dell’Accordo di Parigi), nella migliore delle ipotesi al 2030 produrranno una riduzione delle emissioni del 15% rispetto al 2019, mentre ne servirebbe una del 55%. In tutto questo, stando alle regole di una lungimirante diplomazia climatica, dovremo aspettare il nuovo stocktake del 2028 per scoprire quello che già sappiamo ampiamente, ossia che gli impegni perseguiti dai Governi non sono sufficienti e per chiedere poi loro (nuovamente!) di mostrare maggiore ambizione.

Forse per la prima volta nella storia dei negoziati si è parlato seriamente e con sentito senso di urgenza della necessità di riformare in profondità i meccanismi della diplomazia climatica mondiale. Ma nel frattempo, mentre nuove regole e procedure prenderanno forma nel difficile contesto di una crisi profonda dello stesso multilateralismo e di una ripresa di nuove spinte nazionaliste, cosa potremmo fare? Una cosa è certa: non possiamo concederci il lusso di aspettare perché, come oramai dovremmo sapere bene, i tempi della crisi climatica non dipendono da noi e non siamo in grado di instaurare una trattiva con le ineluttabili dinamiche dell’atmosfera.

Non dobbiamo rinunciare all’idea di un’azione globale. Ma allo stesso tempo dobbiamo fare di tutto per fare in modo che la comunità che ci accoglie – città, stato, regione – faccia la propria parte. Perché è la cosa giusta da fare, nel senso etico del termine. Perché attraverso il nostro esempio potremo spingere altri a fare lo stesso e tornare ad alimentare un movimento globale che appare oggi in grande difficoltà.

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