2 Novembre 2021

Giorno 1, COP26 DAY BY DAY – Lettere da Glasgow

Flop al G20, la palla passa a Glasgow

di Antonio Cianciullo

COP26 giorno 1Comincio queste lettere da Glasgow facendo un passo indietro. Partendo cioè dall’atteso vertice di Roma delle 20 maggiori economie. Un vertice che doveva passare il testimone alla conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite in Scozia dal primo al 12 novembre.

Bene. Il risultato è che la Cop26 di Glasgow dovrà farcela da sola. L’assist atteso dal G20 non è arrivato. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha lasciato Roma dichiarandosi “insoddisfatto” ma con “speranze non sepolte”, E’ una buona sintesi del week end appena concluso. Una sintesi che emerge con chiarezza guardando i numeri, molto meno guardando alcune dichiarazioni sull’esito della riunione delle maggiori economie del mondo. Dai numeri conviene dunque partire perché è difficile trovare la rotta se si usano dati sbagliati. Ecco una breve mappa per orientarsi.

Nessun accordo sulla deadline per la decarbonizzazione. “Accelereremo le nostre azioni attraverso la mitigazione, l’adattamento e la finanza, riconoscendo l’importanza fondamentale di raggiungere emissioni nette globali di gas serra pari a zero, o la neutralità carbonica, entro o intorno alla metà del secolo”. Nessun passo avanti: è la sintesi delle posizioni emerse nei mesi scorsi. C’è un gruppo di Paesi, guidati da Unione europea e Stati Uniti, che chiede la decarbonizzazione al 2050. Un altro, con alla testa Cina e Russia, che la fissa al 2060. L’espressione “entro o intorno alla metà del secolo” è stata coniata per tenere assieme le due posizioni. Posizioni che, secondo il parere degli scienziati dell’Ipcc, difficilmente possono coesistere visto che, andando oltre il 2050, il rischio di un’evoluzione catastrofica del clima è considerato troppo alto.

Gli obiettivi intermedi al 2030 non rispettati. Nel suo ultimo rapporto l’Ipcc stabilisce che al 2030 occorre un taglio delle emissioni serra rispetto al 2010 pari al 45% per stare nella traiettoria di un aumento di 1,5 gradi o pari al 25% per stare nella traiettoria di un aumento pari a 2 gradi. Da un aggiornamento di pochi giorni fa degli impegni volontari assunti dai governi risulta che al momento le previsioni indicano non solo la mancanza di una riduzione delle emissioni di gas serra globali, ma un aumento del 16% al 2030. Su questi punti dal G20 non è uscita un’indicazione che vada oltre il generico appello alla buona volontà.

1,5 o 2 gradi di aumento? C’è chi ha visto un impegno del G20 ad arrivare all’obiettivo 1,5 gradi. Un’interpretazione smentita dal testo finale del G20: “Rimaniamo impegnati nell’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali, anche come mezzo per consentire il raggiungimento dell’Agenda 2030. Riconosciamo che gli impatti del cambiamento climatico a 1,5°C sono molto inferiori rispetto a 2°C”. Anche in questo caso non c’è una virgola in più di quanto già sottoscritto da tutti i Paesi nel 2015 a Parigi. Il testo non indica l’obiettivo 1,5 gradi come nuovo traguardo, ma lo propone come aspirazione, negli stessi termini dell’Accordo di Parigi: l’impegno inderogabile riguarda il restare “ben al di sotto di un aumento di 2 gradi della temperatura”.

100 miliardi all’anno: obiettivo non raggiunto. “Ricordiamo e riaffermiamo l’impegno assunto dai Paesi sviluppati per mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 e annualmente fino al 2025 per affrontare le esigenze dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto di azioni di mitigazione significative”. Copia e incolla dall’Accordo di Parigi (per altro non ancora pienamente rispettato visto che i fondi sono arrivati a 80 miliardi di dollari, non a 100).

Nessun phase out programmato del carbone. Qui la frase è ermetica. A scanso di equivoci meglio riportarla anche in inglese: “We will put an end to the provision of international public finance for new unabated coal power generation abroad by the end of 2021”. C’è chi in queste parole ha visto la fine dei finanziamenti al carbone questo dicembre. Ma in realtà si dice che alla fine del 2021 si interromperanno i finanziamenti pubblici internazionali per le centrali a carbone. Nessuno vieta a capitali privati o statali di continuare a investire sul carbone.

Nessun impegno a piantare un trilione di alberi.  Il testo del G20: “Riconoscendo l’urgenza di combattere il degrado del suolo e creare nuovi pozzi di assorbimento del carbonio, condividiamo l’obiettivo ambizioso di piantare collettivamente 1.000 miliardi di alberi, concentrandoci sugli ecosistemi più degradati del pianeta, e sollecitiamo gli altri Paesi a unire le forze con il G20 per raggiungere questo obiettivo globale entro il 2030, anche attraverso progetti per il clima, con il coinvolgimento del settore privato e della società civile”. Come risulta evidente non ci sono impegni da parte del G20 ma solo un “obiettivo ambizioso”.

Ora si riparte da Glasgow. Ho citato in maniera dettagliata queste premesse perché sono un bel macigno: i nodi irrisolti sembrano stroncare la possibilità di una riuscita della Cop26 di Glasgow. Ma la partita alle conferenze sul clima segue un altro binario. E non è detto che non si superino alcuni degli scogli che sono stati evidenziati.

La prima differenza è che entra in campo la società: in Scozia sono arrivate decine di migliaia di ambientalisti; la Rainbow Warrior di Greenpeace ha deciso di non rispettare il divieto imposto dalle autorità di Glasgow e di risalire il fiume Clyde per dirigersi verso la sede della COP26; il movimento dei Fridays for Future ha fatto sentire la sua voce.

Ed è cominciata la sfilata dei capi di Stato e di governo che hanno lanciato allarmi, a volte rituali a volte sentiti, sulla crisi climatica. Da Mario Draghi (che ha detto che bisogna andare ben oltre il G20, ma che le rinnovabili non bastano) al presidente francese Macron, da Biden a Boris Johnson (che da formidabile creatore di slogan ha detto che nell’orologio del disastro climatico siamo a un minuto prima della mezzanotte).

Ma al coro orientato al traguardo del 2050 si è opposto il controcanto di tre pezzi da 90 che oggi sono scesi in campo annunciando obiettivi incompatibili con la possibilità di bloccare la corsa al rialzo della temperatura entro 1,5 gradi. La Cina e la Russia hanno ufficializzato la loro decisione di spostare la decarbonizzazione al 2060 e il primo ministro dell’India, Narendra Modi, ha detto che il suo Paese raggiungerà l’obiettivo emissioni zero carbonio non prima del 2070.

Dunque la partita si complica. Soprattutto se l’analisi si limita all’operato degli attori ufficialmente in campo. Tuttavia, nell’arco di tre decenni, qualcosa è cambiato nell’abituale copione che seguono le Cop. Ce ne accorgiamo meglio guardando alla linea evolutiva delle 27 Conferenze delle parti (sono 27: questa si chiama Cop26 perché una è stata ripetuta per sbloccare una situazione di stallo) che si sono succedute dalla firma nel 1992, all’Earth Summit di Rio de Janeiro, della Convenzione quadro sulla difesa dell’atmosfera. Negli ultimi anni il peso della componente economica green è andato aumentando. Un numero crescente di imprese guarda con attenzione agli equilibri internazionali sulla questione climatica per cercare di calibrare al meglio i propri investimenti e cogliere le opportunità che si aprono.

Lo ha detto bene al G20 e alla Cop26 il principe Carlo che a Glasgow è intervenuto al posto della 95enne regina Elisabetta: “Se vogliamo raggiungere il vitale obiettivo climatico di 1,5 gradi, un obiettivo che salverà le nostre foreste e le nostre fattorie, i nostri oceani e la fauna selvatica, abbiamo bisogno di trilioni di dollari di investimenti ogni anno per creare le nuove infrastrutture necessarie alla transizione verso la sostenibilità. I governi da soli non possono raccogliere questo tipo di somme. Ma il settore privato può farlo, lavorando in stretta collaborazione con i governi e la società civile. Le aziende di tutto il mondo mi dicono che hanno bisogno di chiari segnali di mercato dai governi, in modo da poter pianificare a lungo termine”.

Le stesse Nazioni Unite puntano su questa pluralità di soggetti per accelerare la spinta verso la transizione ecologica. Quest’anno, per la prima volta, a una Cop sul clima questi attori non governativi del cambiamento sono presenti ufficialmente con l’iniziativa Race to Zero, una campagna lanciata dall’Onu nel 2020 proprio per tenere assieme e dare forza al fronte che racchiude le imprese, gli enti locali, le associazioni che vogliono raggiungere l’obiettivo emissioni nette zero entro il 2050. E’ il fronte che ha dimostrato di saper reggere anche nei momenti più difficili. E’ il fronte che ha portato metà degli Stati Uniti a far squadra con l’Unione Europea del green deal quando alla Casa Bianca c’era Trump.

La spinta che viene dalla somma di enti locali e imprese, di associazioni e movimenti, di finanziamenti pubblici e privati – sostenuta da solidi segnali da parte dei governi – potrebbe portare a superare lo stallo climatico. Qualcosa in più si capirà nei prossimi giorni.

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