25 Gennaio 2022

Il lento tramonto nucleare, tra costi e scorie

(di Andrea Barbabella, coordinatore di Italy for Climate)

Diversamente da quanto si potrebbe pensare ascoltando il dibattito nostrano, il nucleare, che a metà del secolo scorso si pensava potesse traghettare l’umanità verso una nuova era energetica, è ormai da tempo sulla via del declino. Dopo la crescita negli anni ‘70, ‘80 e ’90, nel nuovo millennio l’aumento della generazione di elettricità dall’atomo si è fermato.

Nel 2000 gli oltre 400 impianti nucleari esistenti al mondo producevano circa 2.600 miliardi di kilowattora (TWh) di energia elettrica, il 17% della produzione mondiale. Le fonti rinnovabili già vent’anni fa facevano meglio, con 2.900 TWh, pari al 19% della produzione globale. Da allora le rinnovabili sono più che raddoppiate, arrivando a generare nel 2020 7.600 TWh di energia elettrica, il 28% del totale. In vent’anni il nucleare è rimasto invece praticamente fermo: nel 2020 con 2.700 TWh copre il 10% della generazione elettrica mondiale. Peraltro in modo estremamente disomogeneo: sono circa 30 i Paesi al mondo con capacità nucleare installata, ma oltre il 60% della potenza si concentra in appena cinque: Usa, Francia, Cina, Russia e Giappone (casualmente quattro di questi sono i Paesi che detengono i principali arsenali militari al mondo, l’ultimo è escluso per ovvi motivi).

La fine del sogno nucleare è stata determinata da due peccati originali da cui questa tecnologia non è stata in grado di liberarsi.

Il primo riguarda la sicurezza. Prima di tutto occorre precisare che parliamo di fissione nucleare: la fusione, che al momento esiste solo sulla carta e su progetti sperimentali, non può rappresentare la soluzione al problema climatico perché, secondo le più rosee attese dei fautori del nucleare, il primo kilowattora generato con questa tecnologia verrà immesso in rete nella seconda metà del secolo in corso. Peccato che al 2050 l’umanità, e quindi la generazione elettrica, dovrà essere già a emissioni nette zero. Senza il contributo della fusione nucleare, dunque.

Parlare di nucleare per la transizione energetica e per la lotta al cambiamento climatico vuol dire oggi parlare di fissione nucleare. E il dibattito si è concentrato sui cosiddetti reattori di nuova generazione, la terza più o meno ottimizzata e la quarta ancora inesistente. Ma quello che non si dice è che di base si tratta dello stesso approccio tecnologico delle generazioni precedenti, che hanno dato vita ai disastri di Chernobyl o Fukushima. Sono impianti nei quali si arricchisce un combustibile per innescare una reazione a catena che poi si tenta di “moderare”. Per questi reattori il rischio zero non esiste e, siccome i danni di un possibile incidente rilevante, che non può essere in nessun modo del tutto escluso, sono di fatto potenzialmente incalcolabili, l’accettabilità sociale ed economica di questa soluzione tecnologica risulta compromessa.

Da un po’ di tempo si sente dire che costruire impianti sempre più piccoli possa aumentare la sicurezza di questa tecnologia. Come se un incidente grave in un reattore da poche decine o centinaia di MW, rispetto a uno da mille MW o più, possa essere gestibile o provocare danni accettabili. E come se realizzare impianti a fissione nucleare in ogni provincia, o magari città italiana possa rendere le nostre esistenze più sicure. In realtà l’aumento progressivo delle dimensioni degli impianti nucleari è stato anche guidato proprio dalla necessità di renderli più sicuri, aumentando la ridondanza dei sistemi di sicurezza e cercando (senza riuscirci) di limitarne i costi con economie di scala. Realizzare e gestire dieci piccoli impianti non risolve i problemi di sicurezza della fissione nucleare, semmai ne crea altri.

Rimane, infine, la questione delle scorie. Fin dalla realizzazione del primo reattore l’industria nucleare aveva promesso che sarebbe stato in breve risolto. In realtà la gestione sicura di scorie che rimangono altamente contaminanti per migliaia di anni è tutt’altro che risolta. Come vediamo bene in Italia dove, pur non avendo praticamente mai avviato una vera stagione nucleare, a più di trent’anni dalla chiusura dell’ultima centrale non siamo riusciti ancora a individuare un sito nazionale per gestire quantitativi minimi di scorie derivanti dalle vecchie centrali dismesse (e dal sistema sanitario). In pratica oltre mezzo secolo fa abbiamo firmato una cambiale in bianco all’industria nucleare, in cambio della promessa di una soluzione sicura e definitiva al problema delle scorie. Ma questa promessa non è mai stata mantenuta e tutti noi, anche in Italia, paghiamo ancora oggi il costo di quella cambiale direttamente in bolletta.

Il secondo peccato originale riguarda i costi di questa tecnologia. Aspetto sul quale l’industria nucleare ha sempre cercato di confondere le acque, ignorando spesso i reali costi di decommissioning (peraltro in larga parte ancora non quantificati), magari ipotizzando che fossero a carico della comunità. Ma il trend dei costi è ormai alla luce del sole: lo dimostra l’aumento rispetto ai costi preventivati che caratterizza la realizzazione di tutti gli impianti nucleari al mondo e che ha portato al fallimento di colossi come Areva e Toshiba-Westinghouse impegnati nella loro realizzazione.

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), pur con una grande variabilità tra le diverse regioni del mondo, i costi della generazione elettrica da nucleare sono sempre più alti di quelli di eolico e fotovoltaico. In particolare per l’Europa nel 2020 l’IEA indica un costo totale del kilowattora di 15 centesimi di dollaro (in termini di levelized cost of energy, la misura sviluppata proprio per comparare correttamente i costi delle diverse opzioni tecnologiche), a fronte di 5,5 centesimi per il fotovoltaico, 5 per l’eolico on-shore, 7,7 per l’eolico off-shore (ma anche degli 11 centesimi del gas naturale a ciclo combinato). Anche guardando agli scenari di costo al 2030 e 2050 l’Agenzia, che tradizionalmente non è mai stata contraria al nucleare, prevede che il vantaggio delle rinnovabili resterà.

Ma oggi l’industria nucleare, se anche mai avesse trovato una risposta ai suoi pecati originali, incontrerebbe un nuovo problema, forse altrettanto difficile da risolvere. Il mondo va senza alcun dubbio, viste anche le performance economiche raggiunte, verso un sistema di generazione elettrica basato in larga parte su fonti energetiche rinnovabili e, prime tra tutti, eolico e fotovoltaico. Qualsiasi altra tecnologia che volessimo integrare nel sistema di generazione elettrica deve sapersi adattare agli sbalzi di umore di queste due tecnologie intermittenti e scarsamente programmabili. Ve le immaginate centinaia o migliaia di centrali a fissione nucleare che qualcuno ogni giorno deve accendere, spegnere, accendere, spegnere, accendere… è esattamente quello che il nucleare non può fare, come ci insegna il disastro di Chernobyl. Forse anche per questo la Germania, che pure dall’atomo tira fuori il 10% della sua elettricità, ha deciso di chiudere tutte le centrali rimanenti entro la fine dell’anno in corso. E lavorare per arrivare a realizzare un sistema di generazione elettrica nazionale a zero emissioni in poco più di un decennio.

All’Italia, che dal nucleare è uscita da diversi decenni, non converrebbe seguire la strada della Germania, avendo ancor più da guadagnare?

Articolo originale pubblicato sull’Huffington Post

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