9 Ottobre 2023

La lezione del Vajont che non abbiamo ancora imparato

DI ANDREA BARBABELLA, PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU GREEN&BLUE

Sessanta anni fa, alle 10 e 39 di sera, una frana di quasi 300 milioni di metri cubi di roccia precipita da monte Toc, a oltre 100 chilometri orari, dentro il serbatoio artificiale del Vajont. L’onda che ne risulta, alta fino a 250 metri, supera in parte la diga e si dirige verso la città di Longarone, risalendo poi per chilometri il Piave. Si stima abbiano perso la vita circa duemila persone. Ma non conosceremo mai il numero preciso: la massa d’acqua in corsa, venticinque milioni di metri cubi, provoca uno spostamento d’aria pari a quello di due bombe atomiche di Hiroshima, che polverizza letteralmente decine o centinaia di persone.

Quella del Vajont, per numero di morti, è stata la più grande tragedia in Italia dal dopoguerra in poi, triste primato superato, alcuni anni dopo, solo dai quasi tremila morti dell’Irpinia. Questo forse basterebbe già da solo a giustificare perché, ancora dopo sessant’anni, siamo qui a ricordare questo tragico evento. Ma, in realtà, non è solo una questione di numeri: la tragedia del Vajont porta con sé una lezione di cui, in particolare oggi in un passaggio quanto mai critico nel difficile rapporto tra uomo e ambiente naturale, dovremmo saper fare tesoro.

Per quelli della mia generazione, che nel ‘63 erano ancora li da venire, la storia del Vajont è prima di tutto nel racconto di Marco Paolini, uno dei più begli esempi di teatro civico mai realizzato, portato in televisione la sera del 9 ottobre di trent’anni fa, in una diretta dal centro di un lago che ora non esiste più. E da quel racconto emerge subito, da un lato, la consapevolezza assoluta maturata da parte di alcuni attori protagonisti della vicenda del Vajont del rischio che si stava correndo e, dall’altro, la rinuncia da parte di questi stessi soggetti a fare quel passo indietro che avrebbe cambiato il corso della storia di quella valle. Come è stato accertato dopo quasi quarant’anni di processi giudiziari, infatti, non si è trattato affatto di un evento imprevedibile né tanto meno “naturale”. Alcuni erano perfettamente a conoscenza di quello che stava accadendo e di quanto sarebbe potuto accadere. E nonostante questo, sono rimasti ad osservare la montagna scivolare, prima lentamente e poi sempre più in fretta, verso il lago. Perché?

La triste lezione del Vajont è che duemila persone, di cui quasi cinquecento bambini con meno di quindici anni, sono scomparse da un giorno all’altro a causa dell’arroganza, dell’avidità e dell’ambizione di pochi. L’ambizione di chi progettò l’impianto, la diga a doppio arco più alta del mondo all’epoca, venne a conoscenza della presenza sul fianco del monte Toc di una massa franosa di dimensioni gigantesche. Era forse il suo ultimo capolavoro, a coronazione di una brillante carriera, e perché mai avrebbe dovuto rinunciare, per le ipotesi di qualche geologo?

L’avidità della Società adriatica di elettricità (Sade) che aveva già investito molto ancor prima di avviare i cantieri e che, a causa della nazionalizzazione, avrebbe dovuto cedere forzosamente il bacino funzionate all’Enel. È il rischio intrinseco in quelle che chiamiamo mega-opere, e la diga del Vajont lo era: a un certo punto ci si spinge troppo in là, e gli interessi in gioco diventano così grandi che nulla può più arrestarne la realizzazione. E, infine, l’arroganza di tecnici e ingegneri al governo della diga che, durante gli ultimi tragici mesi delle prove di invaso, fino all’ultima del 9 ottobre, mai terminata, decisero di “gestire in proprio” la faccenda, credendo di poter governare una frana di quelle dimensioni in modo sicuro. Pensando di poter mettere le briglie alla Natura.

Ma c’è anche un’altra, inevitabile direbbe qualcuno, lezione in questa storia: l’incapacità da parte dello Stato di fare in modo che ambizione, avidità e arroganza di pochi non possano nuocere ad alcuno dei propri cittadini. È per questo che, anche questa tragedia, potrebbe tranquillamente essere inserita nel triste elenco italico delle così dette stragi di Stato. Perché duemila persone dallo Stato potevano e dovevano essere salvate. E invece si è lasciato che una montagna precipitasse dentro un lago. E duemila persone sono state uccise, con tanto di occultamento di prove, da un gruppo di individui per i quali non ci sono parole migliori di quelle che Paolini, nella notte del 9 ottobre di trent’anni fa, al centro del lago senza più acqua del Vajont, ha urlato: bastardi! brutti bastardi!

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