7 Novembre 2025
L’Accordo di Parigi non è stato inutile. Ma la sicurezza climatica è lontana
Di ANDREA BARBABELLA, PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU HUFFPOST
La mitigazione, ossia l’azione di contrasto al riscaldamento globale tramite la riduzione delle emissioni di gas serra, rimane indubbiamente il cuore dell’iniziativa climatica. E lo sarà anche alla trentesima Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione Quadro dell’ONU sul cambiamento climatico che si terrà a Belem, in Brasile, a partire da lunedì prossimo. Per questo motivo la presentazione dell’Emission Gap Report – il documento con cui l’UNEP, il Programma ambiente delle Nazioni Unite, fa il punto sullo stato delle emissioni globali di gas serra e sugli impegni formali sottoscritti dalle Parti, cioè dai firmatari della Convenzione – è sempre un momento molto atteso alla vigilia delle COP. Quest’anno, poi, lo è forse ancora di più, visto che siamo a dieci anni tondi dall’Accordo di Parigi ed è, quindi, tempo di bilancio. E, quindi, di scoprire luci e ombre.
Partiamo da un numero, che fa un po’ paura: 57,7 miliardi di tonnellate, è il quantitativo di gas serra che le attività umane hanno immesso in atmosfera nel corso del 2024. È un nuovo, triste, record assoluto. A dieci anni dal primo (e unico) accordo globale sul clima ancora non siamo riusciti a piegare la curva delle emissioni, che continua a puntare in alto. E anche con un certo vigore, visto che nell’anno appena trascorso la crescita delle emissioni mondiali ha fatto segnare un +2,3%. Per confronto, il tasso di crescita annua medio tra il 2010 e il 2020 è stato del +0,6%, quindi siamo a quasi quattro volte tanto. Certamente una bella ombra, scura e densa, su questo bilancio decennale.
Dietro questo numero da record si nasconde un altro dato molto importante, visto il contesto in cui si svolgeranno i lavori della COP30, in Brasile nel cuore della foresta amazonica. Nel 2024 sono stati emessi in atmosfera 1.500 milioni di tonnellate di gas serra in più rispetto all’anno precedente. È come se, da un anno all’altro, fosse comparsa sul pianeta un’altra Indonesia (anzi, qualcosina di più). E non è un paese a caso, perché stiamo parlando del sesto più grande emettitore al mondo. Ma questo impressionante aumento, diversamente da quanto si sarebbe portati a pensare, per meno della metà deriva dal maggiore utilizzo di combustibili fossili. Ben il 53% – quasi 800 milioni di tonnellate di gas serra, all’incirca due volte tutte le emissioni dell’Italia – deriva dai cambiamenti nell’uso del suolo e, quindi, in primis dal taglio, dal degrado, dalla combustione dei boschi di tutto il mondo. Altra ombra affatto trascurabile, che peraltro giustifica l’attenzione che a Belem verrà data proprio alle trattative per il raggiungimento di un accordo sulle modalità per contabilizzare e valorizzare gli assorbimenti di carbonio da parte delle foreste.
Ma la COP30 sarà anche il momento in cui bisognerà valutare i nuovi impegni di riduzione delle emissioni di gas serra (NDC – Nationally determined contributions) al 2035 (che le Parti avrebbero dovuto presentare entro febbraio di quest’anno). Al 30 settembre, quando l’UNEP ha iniziato la valutazione dei nuovi NDC, solo 64 dei quasi 200 firmatari dell’Accordo di Parigi li avevano, chi più chi meno, effettivamente presentati (sono inclusi nel calcolo anche le dichiarazioni del presidente cinese, una dichiarazione di intenti dell’Unione europea e, soprattutto, l’NDC degli USA a firma Biden). Se tutti questi impegni presentati da questi firmatari, che insieme rappresentano anche il 64% delle emissioni globali, fossero tradotti in fatti concreti da qui ai prossimi dieci anni, rispetto al 2019 le loro emissioni si ridurrebbero non più del 15%. La cattiva notizia è che, per limitare il riscaldamento globale rispetto al periodo pre-industriale a non più di 1,5°C, quello che la Corte di giustizia internazionale ha ribadito essere “l’obiettivo primario dell’Accordo di Parigi”, il taglio da conseguire sarebbe del 55%. Altra ombra non da poco su questo bilancio sempre più cupo.
Arrivati a questo punto sembrerebbe facile tracciare una linea e fare i conti: le nubi che si addensano su questi dieci anni dall’Accordo di Parigi sono incontestabili. E la loro presenza è rafforzata dal contesto geopolitico in cui ci troviamo, niente affatto rasserenante. Tuttavia, proseguendo nella lettura del rapporto dell’UNEP, si colgono anche alcune indicazioni di segno opposto che, non per ottimismo ma per pragmatismo, sarebbe sbagliato non cogliere.
Il primo è che la finestra per rispettare il limite di 1,5°C è sicuramente molto molto stretta, ma non ancora del tutto chiusa. Non siamo, insomma, ancora definitivamente condannati a vivere su un pianeta senza più ghiacci e con il livello dei mari decine di metri sopra l’attuale. Abbiamo ancora una possibilità di appello. E non è poco. Nonostante nel 2024, l’anno più caldo della nostra storia (finora), abbiamo già superato tale soglia, abbiamo ancora la possibilità di rientrare. Probabilmente dovremo accettare l’idea di vivere per alcuni anni un mondo più caldo di oltre 1,5°C rispetto al periodo pre-industriale (quella che in gergo si chiama una fase di overshoot), con tutte le conseguenze, sistematicamente sottovalutate, sulla nostra società e la nostra economia. Ma, se agiremo velocemente per aumentare le nostre ambizioni di riduzione delle emissioni e sviluppare anche soluzioni e tecnologie di sequestro della CO2 dall’atmosfera (boschi ma non solo), potremo tornare sotto la soglia di sicurezza dei +1,5°C ed evitare le conseguenze più dannose e costose di un riscaldamento globale fuori controllo.
Il secondo barlume di luce che traspare dal rapporto è che, rispetto al 2015, anche se siamo ancora lontanissimi da dove dovremmo e vorremmo essere, di strada ne abbiamo fatta e sarebbe molto sbagliato non riconoscerlo. Le politiche in vigore a quell’epoca, infatti, secondo le valutazioni dell’UNEP ci avrebbero consegnato a fine secolo un mondo più caldo di 4°C: semplicemente invivibile! La stessa valutazione fatta oggi, ci dice che con le politiche attualmente messe in campo (non con gli impegni e le promesse) nella peggiore delle ipotesi ci troveremmo a vivere in un mondo più caldo di meno di 3°C. Ancora troppo, lo sappiamo, ma in dieci anni abbiamo guadagnato 1°C e non è poco. Specie sapendo che, come ha dichiarato la Direttrice esecutiva Inger Andersen, ogni frazione di grado in meno vuol dire costi e sofferenze enormi che potremo risparmiare all’Umanità.
E cosa ci ha consentito di ottenere questo piccolo grande successo? Sicuramente sono enormemente migliorati i contesti normativi e le politiche attive sul clima, afferma l’UNEP. Ricordando che oggi il 70% delle emissioni di tutto il mondo avviene in Paesi che hanno fissato un obiettivo di neutralità climatica intorno alla metà del secolo. Nel 2015 questa percentuale era semplicemente pari a zero. Ma, soprattutto, si è messa in moto una trasformazione green dell’economia mondiale la cui corsa è stata accelerata dalla drastica riduzione dei costi di alcune tecnologie chiave per la transizione energetica. A cominciare della generazione elettrica. Nel 2015, con poco più di 150 GW, i nuovi impianti di rinnovabili installati nell’anno superano di poco quelli fossili. Nel 2024, con quasi 600 GW, oltre il 90% dei nuovi impianti di generazione elettrica realizzati in tutto il mondo è alimentato da fonti rinnovabili, sole e vento in testa.
Il messaggio più importante per Belem potrebbe, quindi, è proprio questo. Forse ancora non ce ne siamo accorti, ma siamo sulla cresta di un’onda che rischia di cambiare radicalmente e in modo inaspettatamente rapido la storia ultradecennale del contrasto alla crisi climatica. Per una volta tanto, allora, godiamoci questo sprazzo di luce ma, soprattutto, non smettiamo di surfare.


